Carissimi, è sempre motivo di festa il ritrovarsi, da fratelli nella fede, alla messa di Mezzanotte del Natale. Oltre tutto questa partecipazione segnala per alcuni un dato che in ogni caso è positivo: il lume di fede trasmessa in famiglia ha ancora almeno un po’ di olio nella lampada del cuore. Non posso che esserne contento. A tutti pertanto un fraterno saluto e un affettuoso abbraccio di benvenuto.
In questa circostanza, tra le più suggestive dell’anno liturgico, potremmo sostare su parecchi nuclei di riflessione spirituale ispirati al Mistero del Natale cristiano. Ci bastino tre parole desunte dal testo, di una straordinaria densità di contenuti, praticamente inesauribili, della lettera a Tito proclamato nella seconda lettura: “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (Tt 2, 11-12). Ecco dunque i tre termini: sobrietà, giustizia e pietà! Quale attinenza hanno con il mistero del Natale? In esso trovano il loro humus più vero e fecondo.
Anzitutto la sobrietà. Che non va confusa con miseria. Sobrietà sta per saggezza nell’uso di mezzi a nostra disposizione, mai considerati come fine a se stessi. Quelli che servono, nella loro essenzialità, ad evidenziare la dignità della persona umana che non si identifica con le cose possedute. Un meschino non diventa un grande perché può far conto su una sua favolosa fortuna e prosperità economica. Mentre una grande personalità resta grande anche se vive in un contesto di estrema sobrietà.
Per comprenderne maggiormente il senso e il valore, guardiamo a Gesù. Egli entra sulla scena della storia imperiale, tutta sfarzo e ostentazione, venendo alla luce nella sobrietà inedita dell’angolo più riposto di una abitazione riservato agli animali domestici. Viene avvolto,come annota Luca, da panni preparati con amorevole cura dalla giovane madre, Maria. Deposto in una mangiatoia. L’essenziale dunque per dirsi accolto e non rifiutato. Ma non gli manca affatto ciò che di più essenziale vi è nella vita di una persona, di cui ha necessità vitale: l’amore tenerissimo di sua madre, le premure di Giuseppe, l’affetto dei pastori. Successivamente, per tutti i trent’anni di vita trascorsi a Nazareth Gesù ha dato testimonianza di quella sobrietà che non lo faceva sfigurare e nemmeno evidenziare fra tutti, ma lo collocava tra gli abitanti normali del villaggio, individuato come era nella sua qualifica di figlio del falegname (cfr Mt 13, 55). La sua vita pubblica poi, interamente dedicata alla missione affidatagli dal Padre, era talmente libera dai condizionamenti delle cose che non aveva neppure una dimora fissa: “Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 58). Morirà su una nuda croce. Pura essenzialità di amore.